Nel 2020 mi è stato chiesto di dare la mia disponibilità a guidare l’Uncem Piemonte non avrei onestamente immaginato di trovarmi a iniziare questo percorso dopo l’elezione avvenuta il 17 ottobre 2020. Non sfugge a nessuno la portata dell’impegno che questo ruolo implica, soprattutto dopo la presidenza dell’amico, del compagno di tante battaglie, del Presidente Lido Riba.

Condivido alcune riflessioni, che partono dal nostro passato e da quanto stiamo facendo. In primo luogo, non dimentichiamolo mai: la storia delle nostre montagne è fatta di cooperazione, del lavoro comunitario, di beni comuni e del loro utilizzo sostenibile. Storicamente non c’era spazio per l’egoismo. L’abbiamo importato insieme al modello di sviluppo che ci ha condannato. Un modello che ha non messo al centro l’individuo, ma che ha esasperato l’individualismo e, da questo, l’egoismo.

Le pagine di storia delle nostre comunità raccontano di comunità che coinvolgevano e non dividevano; che si interessavano del bene collettivo perché il bene di tutti, era, in primis, il “mio” bene. Man mano che le comunità si sono ridotte a numeri sempre più esigui, l’indifferenza ha preso spazio e la delega disinteressata è diventata un alibi.

La geografia, l’urbanistica, l’architettura delle nostre valli ci raccontano di borgate autosufficienti, di sentieri che legavano le centinaia di borgate, di una rete comunitaria che univa: unità e non divisione. Non divisione tra comuni ma unità, non divisione tra valli ma unità, non divisione tra stati, ma unità tra popoli!

Oggi vogliamo continuare a costruire comunità, una comunità allargata a tutte le forze politiche, civili, economiche e sociali che a vario titolo vivono le terre alte. Il sentire collettivo, la scala dei valori fondanti, è il mezzo che una comunità ha a disposizione per individuare e perseguire il fine del proprio agire e che diventa allora il “bene comune”. Sulle nostre Alpi e Appennini si sono mantenute comuni tracce culturali che altrove sono state spazzate via dall’avanzare della modernità e dalla conseguente riorganizzazione della società. Non è un caso che queste tracce si siano potute conservare proprio nei luoghi in cui l’approccio comunitario è stato premiante.

Sta a noi oggi fare in modo che al centro del progetto europeo venga collocato l’uomo che le Alte Terre vive. Sta a noi mettere in rilievo quei valori fondanti che sono il nostro DNA:

Autonomia: che significa responsabilità civile ed amministrativa, sobrietà, cooperazione, solidarietà. Autonomia nelle forme di autogoverno, che partendo dal diritto di esistenza delle municipalità, condivide che l’esistenza di strumenti sovracomunali come le Unioni montane siano l’unico strumento possibile per le politiche di sviluppo montano e di ottimizzazione ed efficienza dei servizi resi ai cittadini.

Libertà: di costruzione di un progetto d’insieme per il proprio territorio. Temi come ambiente, come agricoltura, allevamento e turismo sostenibile declinati alla montagna supportati da innovativi servizi di cittadinanza, devono essere punti cardine di un piano strategico per arrivare a un pratico e nuovo ritorno ai lavori delle terre alte. Libertà culturale e identitaria per ricostruire un processo politico collettivo.

Partecipazione: le comunità alpine devono poter prendere parte al processo di crescita del proprio territorio ed essere parte di una comunità attiva in questo impegno. E per poter fare questo ci deve essere la giusta rappresentanza politica che tenga in considerazione che anche il territorio va governato e non solo gli abitanti.

Energia: la valorizzazione delle risorse endogene (acqua, legno, aria) della montagna deve passare attraverso le istituzioni della montagna. Attraverso i concetti di sostenibilità economica, sostenibilità ambientale e prossimità territoriale, gli strumenti istituzionali che governano la montagna devono essere messi nelle condizioni di poter costruire il proprio sviluppo. Lo diciamo da anni. Adesso lo dicono tutti.

Sussidiarietà: attraverso il dettame costituzionale della leale collaborazione tra gli enti, bisogna ricostruire un sistema di interazione in cui non ci sia nessun atteggiamento egemone delle istituzioni sovraordinate, ma un rapporto stretto che permetta di rispondere al meglio alle esigenze e dove le decisioni vengono prese il più possibile vicino ai cittadini.

 

La crisi globale Covid-19 ha fatto emergere molte disuguaglianze e ingiustizie che segnavano quella “normalità” e le scelte infauste che le hanno prodotte. Oggi siamo nel mezzo della discussione sui diversi modi di approccio alla ripartenza per ridurre tali disuguaglianze. L’opzione “normalità e progresso” propone il ritorno a quella normalità “con più attenzione alle disuguaglianze” affidandosi agli stessi principi che hanno prodotto e amplificato quelle disuguaglianze; la seconda opzione “sicurezza e identità” offre a chi soffre tali ingiustizie barriere a difesa di comunità chiuse e uno Stato accentrato che prenda decisioni. A queste due opzioni e al rischio di un loro compromesso, si può rispondere con un progetto che metta al centro del futuro la giustizia sociale e ambientale e che persegua questi obiettivi modificando gli equilibri di potere e i dispositivi che producono le disuguaglianze, orientando il cambiamento tecnologico digitale, producendo un salto di qualità del “pubblico” – e delle sue amministrazioni – capace di produrre fiducia.

Lo sviluppo sostenibile della montagna non può essere l’esito di un processo redistributivo di ricchezze e redditi che si formano altrove ma il risultato di un processo inclusivo con il quale lo Stato si mostra consapevole dell’esigenza di mettere in valore tutte le sue risorse, di diversa natura e collocazione, che è necessario chiamare in causa tutte per affrontare e vincere la sfida della ripartenza. E non può che essere l’esito di nuove regole d’ingaggio tra la Città e montagna: per dirla alla De Rossi, una nuova visione metromontana, fondata sull’interdipendenza e la cooperazione dei diversi sistemi territoriali. Del resto, prima della modernizzazione novecentesca, questa era sempre stata la modalità di funzionamento storica del policentrismo italiano. Questo della metromontanità è il nodo centrale, che può permettere di superare lo stallo della contrapposizione tra visioni urbanocentriche e localistiche. Non si tratta del tema di progettare le aree interne come fossero un recinto a sé stante, ma di prefigurare un progetto complessivo sul tema del Riabitare l’Italia.

 

di Roberto Colombero