Nelle piccole frazioni dell’appennino italiano ferite dal terremoto, la ricostruzione ha molte facce. Quelle degli anziani che restano. Quella delle attività che si spengono. Quella degli edifici inutilizzabili. Tra gli edifici anche quelli di culto, che significano aggregazione e speranza. Le comunità si sono ridotte il territorio montano si è svuotato e non è più pensabile avere tante chiese per tante comunità, ma c’è anche un valore storico, artistico e culturale: le chiese rappresentano un patrimonio artistico e dovrebbero essere ripristinate in un piano di rilancio turistico. A complicare le cose ha contribuito la pandemia, che ha isolato ulteriormente le persone, bloccato gli interventi, aumentato i costi. Così per la maggior parte restano inagibili, mentre le congregazioni si radunano altrove.

Della ricostruzione pastorale nel post sisma parliamo con Monsignor Francesco Massara, Arcivescovo di Camerino, San Severino Marche e Vescovo di Fabriano, Matelica.

Qual è stato il ruolo dei sacerdoti nel post sisma? «I sacerdoti hanno continuato ad essere presenti sul territorio, non lo hanno mai abbandonato. Hanno condiviso i disagi e le sofferenze delle persone coinvolte, sono rimasti accanto alle comunità. Abbiamo avuto 250 case parrocchiali e 350 chiese danneggiate su 500. Molti sacerdoti sono andati ad abitare nelle SAE, le strutture abitative emergenziali, in mezzo alla gente, per rispondere al loro bisogno di ascolto e di amore».

Come è continuato il rapporto con la comunità? «Molti abitanti sono andati via. La popolazione si è impoverita, sono rimasti soprattutto anziani. Il ritardo della ricostruzione rischia di provocare una desertificazione della montagna: più anni passano e meno la gente sarà propensa a tornare».

Come vede la ricostruzione, cosa serve? «La ricostruzione non può essere solo strutturare, deve essere accompagnata da quella sociale ed economica, altrimenti avremo il fallimento della ricostruzione nelle zone appenniniche. Ciò che serve è la capacità progettuale per la gestione dei fondi, risolvendo il problema di personale, di disponibilità di professionisti e di imprese e superando lo scoglio della burocrazia, che rallenta pesantemente gli interventi. Perché questo è un treno che passa adesso, perderlo significa non cogliere un’occasione di svolta per la montagna».

 

di Francesca Corsini