Andrea Bianchi porta in Val Sesia la “Sparlà d’ Sol”: azienda agricola a zero impatto che si scontra con la miopia dei finanziamenti pubblici

 Nella parlata della Val Sesia la “Sparlà d’Sol” è quel raggio di sole che da solo riesce a forare le nubi dopo un temporale; una locuzione quasi perduta, tornata a riecheggiare nell’ultimo biennio grazie ad Andrea Bianchi che l’ha voluta come marchio per la sua piccola azienda agricola di Varallo. Una scelta calzante e evocativa di quella che è la sua filosofia di vita e lavoro: riportare alla luce antiche varietà di ortaggi, strappando piccoli appezzamenti all’abbandono e al bosco d’invasione attraverso tecniche di coltivazione in grado di proteggere e rigenerare il suolo. Davvero un bel raggio di sole nel buio panorama dell’agricoltura tradizionale.

Un nuovo modello

Ventinove anni, dottore forestale, Andrea sognava da tempo un’azienda agricola a zero impatto per riportare sulla tavola antiche varietà, buone e sane, ottenute nel rispetto dell’ambiente. Da due anni coltiva orticole, canape legale e ben dieci varietà di patate antiche, tra le quali alcune rarità ormai quasi impossibili da trovare come la tipica patata blu di Otro, dono prezioso di un’anziana signora di Alagna.

Non di rado gli ortaggi di Andrea fanno brillare gli occhi dei clienti, che ritrovano in essi i sapori di una volta, grazie a una conduzione del fondo che segue i principi dell’agroecologia e dell’agricoltura rigenerativa, andando ben oltre le prescrizioni necessarie per il biologico da etichetta.

Fare agroecologia vuol dire, in buona  sostanza, copiare gli ecosistemi naturali: tra le principali pratiche messe in atto troviamo la copertura perenne delle parcelle coltivate e l’utilizzo di aiuole rialzate per dividere i camminamenti dal coltivo, garantendo così la massima ossigenazione delle porzioni coltivate, non soggette allo stress del calpestio del contadino; in questo genere di agricoltura anche il bosco gioca un ruolo fondamentale, fornendo una mole importante di materia organica pronta a rilasciare carbonio, elementi nutritivi e tanti microrganismi utili.

Paradossi normativi

Se nella natura risiede la gran parte delle risposte e dei rimedi, è invece nella dimensione umana che insorgono i problemi per la conduzione aziendale sul modello di Bianchi: in primis il secolare frazionamento fondiario, con la conseguente difficoltà a trovare terreni coltivabili, seguita da alcuni paradossi normativi frutto della legislazione recente.

Un’azienda del genere, seppur elevata a modello attuale, risulta infatti troppo piccola per l’accesso alla gran parte dei finanziamenti pubblici in agricoltura: in assenza di un approccio integrato che guardi alle modalità di lavoro e non solo ai numeri, le superfici condotte risultano troppo esigue per un’agricoltura professionale, impedendo la candidatura a numerosi bandi di finanziamento.

Di grande, nell’azienda Bianchi, c’è solo il legame di fiducia tra le persone: con i proprietari dei piccoli appezzamenti condotti, che spaziano tra i 450 e gli 800 m di quota, e con i consumatori finali. Una cura sartoriale delle coltivazioni e dei rapporti umani, impossibile da mantenere su larga scala.

Piccola scala, grande fiducia

«Piccola scala, grande fiducia», questo il motto di Andrea, che ha le idee ben chiare: «il mio obiettivo è ridare valore al cibo di prossimità, riportando attenzione sul valore del cibo buono e sano».

Più che positiva la risposta del territorio, con richieste di prodotti che superano di gran lunga le disponibilità aziendali.  Coerente e determinato, il giovane non intende cadere nella trappola illusoria dell’aumento di produzione, ma sogna piuttosto la costituzione di una CSA (Comunità che Supporta l’Agricoltura), come già avvenuto in altre zone del Piemonte (il caso di “cresco” in Valle Varaita). «Credo fermamente – spiega –, che far parte di un Collettivo di agricoltori, contadini, ricercatori, sperimentatori e custodi del suolo e della Terra sia l’unica via per affrontare le enormi sfide che si presenteranno in futuro, incentivando un’agricoltura che sia rigenerativa, oltre che per l’agroecosistema, anche per il nostro essere e per la società in cui vogliamo vivere».

 

di Caterina Morello